Roma, basilica dell'Ara Coeli, ricerca comparativa su dettagli architettonici dei prospetti.


 


Roma, panorama dai tetti del Campidoglio.


Ripresa con banco ottico 4x5", obiettivo Rodenstock Sironar N 300 mm su diapositiva Kodak Ektachrome, 100 ISO.

 

La prof.ssa Angiola Maria Romanini (1) è stata il più autorevole studioso di Arnolfo di Cambio. Al nome di Arnolfo sono legati alcuni tra i vertici dell'architettura occidentale tra Due e Trecento, da S. Maria del Fiore a S. Croce, da Palazzo Vecchio alla sistemazione urbanistica della Firenze di Dante. E tuttavia non sussiste oggi una sola opera o parte di opera architettonica in cui si possa riconoscere con sicurezza la sua mano, salvo una serie di straordinarie sculture pertinenti, in origine, ad architetture o a microarchitetture o tuttora sussistenti entro microarchitetture: e salvo, inoltre, quattro di queste ultime giunte sino a noi — intere o in frammenti — non solo documentate ma anche datate e firmate dallo stesso Arnolfo e in due casi — i cibori di S. Paolo e S. Cecilia a Roma — tuttora conservate in situ pressoché integre (2).
Queste microarchitetture costituiscono oggi un possibile tertium comparationis in grado di risolvere o almeno avviare a soluzione la plurigenerazionale querelle relativa all'architettura fantasma di Arnolfo di Cambio, questo autentico buco nero della storia dell'arte gotica.
È bensì indubbio che nella microarchitettura non si può, di norma, cercare la soluzione dei problemi statici propri di una architettura monumentale. Da essa non sembrano ricavabili se non suggerimenti di massima, idee progettuali o un disegno spaziale d'assieme: come l'idea della cupola arnolfiana di S. Maria del Fiore, prefigurata, o addirittura preparata, in coerente percorso progettuale, dal ciborio di S. Cecilia al sacello di Bonifacio VIII in S. Pietro in Vaticano, che Arnolfo compì intorno al 1296, in uno con l'avvio della fabbrica di S. Maria del Fiore.
A partire dai cibori, l'analisi archeologica ha dimostrato che le pareti delle microarchitetture arnolfiane sono realizzate a Masswerk, e cioè mediante l'incastro a gancio di pezzi singoli, prefabbricati allo scopo, un tessuto elastico e leggero, autosufficiente nei confronti delle strutture portanti. La scoperta della lavorazione a Masswerk delle sue microarchitetture offre oggi inedite possibilità di rilettura delle architetture maggiori.

La presenza costante di uno stesso metodo operativo non è sottovalutabile. A questa luce si dovrà ora ristudiare la presenza di Arnolfo caput-magister nelle macroarchitetture che gli vengono variamente attribuite: a partire dall'Aracoeli a Roma.
In essa l'alto capocroce conserva — parzialmente murate ma ben riconoscibili — le originarie, alte finestre archiacute. Entro i loro nudi stipiti, tagliati a lama nelle pareti in cotto, una tessitura marmorea a Masswerk di particolare eleganza inserisce sottili bifore, culminanti in oculi plurimi, se così si può definirli: una serie di pezzi curvilinei prefabbricati che saldandosi generano al centro dei due archetti della bifora tre o talora quattro cerchi, privi ciascuno di due segmenti in esatta coincidenza con i segmenti mancanti agli altri due o tre cerchi, in un giro unico e polilobo, di insolita purezza. Affatto diversa la lavorazione delle finestre delle pareti alte della navata, all'interno delle quali è inserita una lastra marmorea sbalzata in forma di bifora.
Occorreranno specifiche analisi approfondite e puntualmente estese, parte a parte, all'intero edificio, prima di arrivare a conclusioni. Sin d'ora peraltro la ritrovata analogia con le microarchitetture arnolfiane — documentate firmate datate - ribadendo l'attendibilità della attribuzione ad Arnolfo del capocroce dell'Aracoeli, conferma anche l'esistenza di un preciso stacco — formale e cronologico — tra capocroce e navata. E quest'ultima — sganciata dalla diretta «autografia» arnolfiana — ne risulta di conseguenza da spostare decisamente più avanti, nel tempo, rispetto a quegli anni ottanta/novanta del XIII secolo che restano (in concomitanza o subito prima della decorazione pittorica e plastica) i più probabili per la realizzazione del capocroce da parte di Arnolfo.

Ai fini della ideale ricostruzione della tecnica arnolfiana, tanto determinante per decifrare anche le sue opere monumentali, la Romanini mi richiese una documentazione fotografica della struttura costruttiva delle finestre dell’Ara Coeli per la cui realizzazione fu necessario salire sui tetti del Campidoglio. Acquisite le necessarie autorizzazioni ci spingemmo fino al camminamento superiore del michelangiolesco Palazzo Nuovo in Piazza del Campidoglio, che costituisce assieme con Palazzo dei Conservatori la sede dei Musei Capitolini.
Da lì operammo con una camera 6x7 munita di un teleobiettivo da 180 mm di focale. La vista su Roma era incantevole e ne approfittammo per scattare anche qualche immagine del panorama.


Note:

(1) docente di Storia dell’Arte Medievale, Università La Sapienza di Roma.

(2) A. M. Romanini, Arnolfo "architectus", in Studi in onore di Giulio Carlo Argan, Scandicci, La Nuova Italia Editrice, 1994, pp 71-94.

 

   

Basilica dell'Ara Coeli, particolare con residui di mosaici.


Ripresa con banco ottico 4x5", obiettivo Rodenstock Sironar N 300 mm su diapositiva Kodak Ektachrome, 100 ISO.


 

 

Basilica dell'Ara Coeli, particolare con veduta su Roma.


Ripresa con banco ottico 4x5", obiettivo Rodenstock Sironar N 300 mm su diapositiva Kodak Ektachrome, 100 ISO.