Orvieto, chiesa di S. Domenico, monumento funebre del Cardinale De Braye di Arnolfo di Cambio.


 

 


Orvieto, chiesa di S. Domenico, particolare della mano della statua della Madonna.


 

 

Ripresa con Mamya RB67, obiettivo 90 mm su diapositiva Kodak Ektachrome, 100 ISO realizzata avvalendosi anche di uno specchio per evidenziare il grado di lavorazione della pietra dei singoli elementi anche nelle parti non visibili.

 

 

 

 

Momenti del lavoro di documentazione.

La prof.ssa Angiola Maria Romanini (1) è stata il più autorevole studioso di Arnolfo di Cambio. Al nome di Arnolfo sono legati alcuni tra i vertici dell'architettura occidentale tra Due e Trecento, da S. Maria del Fiore a S. Croce, da Palazzo Vecchio alla sistemazione urbanistica della Firenze di Dante. E tuttavia non sussiste oggi una sola opera o parte di opera architettonica in cui si possa riconoscere con sicurezza la sua mano, salvo una serie di straordinarie sculture pertinenti, in origine, ad architetture o a microarchitetture o tuttora sussistenti entro microarchitetture: e salvo, inoltre, quattro di queste ultime giunte sino a noi — intere o in frammenti — non solo documentate ma anche datate e firmate dallo stesso Arnolfo e in due casi — i cibori di S. Paolo e S. Cecilia in Trastevere a Roma — tuttora conservate in situ pressoché integre.

Queste microarchitetture costituiscono oggi un possibile tertium comparationis in grado di risolvere o almeno avviare a soluzione la plurigenerazionale querelle relativa all'architettura fantasma di Arnolfo di Cambio, questo autentico buco nero della storia dell'arte gotica.

È bensì indubbio che nella microarchitettura non si può, di norma, cercare la soluzione dei problemi statici propri di una architettura monumentale. Da essa non sembrano ricavabili se non suggerimenti di massima, idee progettuali o un disegno spaziale d'assieme: come l'idea della cupola arnolfiana di S. Maria del Fiore, prefigurata, o addirittura preparata, in coerente percorso progettuale, dal ciborio di S. Cecilia al sacello di Bonifacio VIII in S. Pietro in Vaticano, che Arnolfo compì intorno al 1296, in uno con l'avvio della fabbrica di S. Maria del Fiore.

A partire dai cibori, l'analisi archeologica ha dimostrato che le pareti delle microarchitetture arnolfiane sono realizzate a Masswerk, e cioè mediante l'incastro a gancio di pezzi singoli, prefabbricati allo scopo, un tessuto elastico e leggero, autosufficiente nei confronti delle strutture portanti. La scoperta della lavorazione a Masswerk delle sue microarchitetture offre oggi inedite possibilità di rilettura delle architetture maggiori.

 

Una sensazionale novità è venuta in luce dalle ricerche svolte dalla Romanini in una tra le meglio documentate microarchitetture di Arnolfo, il Monumento De Braye  nella chiesa di S. Domenico ad Orvieto; una novità in grado di confermare che esse micro-architetture valgono a «indicare perfettamente il passaggio arnolfiano dalla scultura all'architettura» .

L'uso ricorrente in Arnolfo di citazioni classiche e, contemporaneamente, di infrazioni delle regole implicite in esse citazioni....l'antico "aggiustato" in vista di nuovissimi effetti ottici e accelerazioni visive trova una coerente conferma in ciò che è apparso alla luce nel corso di una operazione di restauro in quella che sino ad oggi è stata considerata un classico del classicismo arnolfiano, la Vergine in trono con il Bambino al vertice del monumento De Braye in S. Domenico a Orvieto. In realtà una statua romana bene databile al II secolo d.C., trasformata in Mater Dei e Regina coeli da Arnolfo, post 1282, mediante una aggiunta e pochi ritocchi.

L'eccezionale ritrovamento è bene riconducibile entro precise coordinate, tipologiche e cronologiche. Si tratta infatti di una statua femminile assisa, realizzata in marmo bianco, databile intorno alla metà del II secolo d.C..  L'aggiunta è il Putto, uno straordinario autografo arnolfiano, salvo la testa, che è di restauro, ma compresa la bellissima mano della Vergine, che stringe il Putto alla vita. Questa mano non è pertinente alla statua seduta, come appariva dal basso e da lontano; è scolpita, in uno con il corpo del Putto, in un blocco di marmo separato, diverso e a sé stante, incastrato in un secondo momento nel grembo della statua  mediante un perno, inserito entro un foro tagliato in rottura nell'alto della coscia sinistra.

Un'operazione a ben vedere ambigua. L'amia si cela, rivestendo panni gotici; ma a loro volta questi ultimi si paludano «all'antica», limitandosi, allo scopo, a lasciar trasparire nei punti opportuni l'antico autentico, che essi celano, con una sorta di attestato di auctoritas. Questo e molti altri aspetti della straordinarii scoperta andranno più a fondo esaminati: a partire dalla via per cui la statua romana — chi chiameremo pur sempre De Braye — giunse quasi integra nelle mani di Arnolfo che si trovò libero di riplasmarla a suo piacere.

E dunque a partire dai nuovi dati che essa potrà fornire sul rapporto con l'antico proprio di un artista come Arnolfo nel Duecento toscano, nella sua qualità di caput magistn e capobottega, al servizio delle più prestigiosi committenze del tempo, in ambito ampiamente europeo.

 

Ai fini della ideale ricostruzione della tecnica arnolfiana, tanto determinante per decifrare anche le sue opere monumentali, la Romanini affidò il rilievo architettonico e le elaborazioni  ricostruttive del monumento all’arch. Roberta Caglianone ed a me assieme alle riprese tecniche di dettaglio.

In particolare, nello studio del monumento e dei suoi singoli pezzi, fu necessario studiare attentamente le lavorazioni superficiali della pietra su tutta la superficie delle sculture, anche nelle parti meno visibili. A tale scopo mi dovetti avvalere di alcuni specchi che vennero posizionati in modo da riflettere le parti posteriori delle statue.

Le riprese fotografiche in grande formato furono realizzate dallo Studio Abbrescia e Santinelli.


Note:

(1) docente di Storia dell’Arte Medievale, Università La Sapienza di Roma

(2) A. M. Romanini, Arnolfo "architectus", in Studi in onore di Giulio Carlo Argan, Scandicci, La Nuova Italia Editrice, 1994, pp 71-94.

   

Scultura del gruppo, particolare della lavorazione del retro della statua realizzata con l'uso di uno specchio.


Ripresa con Mamya RB67, obiettivo 90 mm su diapositiva Kodak Ektachrome, 100 ISO realizzata avvalendosi anche di uno specchio per evidenziare il grado di lavorazione della pietra dei singoli elementi anche nelle parti non visibili.

 

 

Veduta generale del gruppo della Madonna con bambino.


Ripresa con Mamya RB67, obiettivo 90 mm su diapositiva Kodak Ektachrome, 100 ISO.

 

Immagini pubblicate in Arte Medievale, serie II, anno IV, n° 2, 1990, pag. 31.

Immagini pubblicate in Arte Medievale, serie II, anno IV, n° 2, 1990, pag. 32.